Discorso di apertura della mostra Io, Valerio. Il mio tempo di Elvio Dante
Nell’introdurvi, oggi, a questa manifestazione, sento già in partenza di dovermi scusare con voi, se questa mia prolusione porterà via qualche minuto in più al vostro tempo, ma le circostanze a questo mi hanno portato.
Infatti, in una situazione di diffusa condivisione, con tutta probabilità mi sarei concisamente adagiato su formule di circostanza, sulla retorica d’occasione con cui si è soliti accompagnare i piccoli e grandi avvenimenti umani, assumendo che ciascuno avrebbe compreso da sé le ragioni di questa commemorazione e delle sue appendici.
Purtroppo si era dato per scontato quello che scontato non si è rivelato, ossia che la meritoria fama acquistata da un nostro concittadino fosse ragione sufficiente per rendergli il giusto omaggio.
Ad indirizzarmi verso altro, è stato concretamente il fatto che, di fronte alla notizia di questo evento, c’è chi non ha dissimulato la propria contrarietà ed il proprio disappunto, ritenendo un calciatore non degno di simili eventi e, in quanto calciatore, improbabile punto di riferimento per le giovani generazioni.
E’ sorta, quindi, ovvia e conseguenziale, la necessità di chiarire, cogliendo oggi l’occasione per dare motivo di questa mostra e delle ragioni che hanno mosso per la sua realizzazione.
In ciò mi è stato d’aiuto quello che, alcune settimane addietro, un noto giornalista scriveva, dissertando su “emozione e sentimento”:
“……Non sono tempi, questi, in cui è considerato utile maturare un’opinione, perché l’emozione è più che sufficiente. Si sente uno, si ascolta il battito del cuore e si reagisce. Il sentimento è già questione troppo complicata: sta al giudizio come l’emozione sta al pregiudizio. Emozione e pregiudizio sono immediati, sentimento e giudizio richiedono fatica e lavoro, e noi non abbiamo energie e tempo da buttare”.
Queste sono state le sue parole.
Quindi, se non vogliamo che il giudizio diventi un’arte azzardata, un percorso scontatamente indirizzato verso il pregiudizio, il sentimento, che implica valutazione e discernimento, è d’obbligo.
Perché “sentimento” è la percezione del mondo circostante, il riconoscimento della realtà e delle sue interazioni, della società in cui viviamo, dei suoi valori.
E’, in estrema sintesi, la coscienza che abbiamo di noi stessi, di ciò che siamo, presupponendo quantomeno ciò che siamo stati.
Ebbene, coloro che sono stati parti attive nella realizzazione di questa mostra, tutto questo lo hanno avuto ben presente, sempre. Hanno messo energie e tempo, perché alla base di quanto costruito non c’era la volontà di creare emozioni, ma sentimenti, affinché ciascuno di noi – e ognuno per proprio conto – andasse oltre, costruendo giudizi.
Sia chiaro, a nessuno sarà impedito di vivere emozioni, ma se questo fosse l’unico risultato – non ho difficoltà a dirlo – avremmo fallito. E ancor più lo vivremmo come fallimento, nel momento in cui ragionare di Valerio Bacigalupo è stato, intenzionalmente, aprire una finestra sulla nostra storia, sul passato di questa comunità e non semplicemente ed esclusivamente su di un portiere e sui suoi indubitabili meriti sportivi.
Il fluire delle vicende umane porta con sé rappresentazioni etiche che facilmente sfuggono nella contemporaneità del momento.
Il tempo trascorso ci consente, forse, di dare a fatti e persone una figurazione più oggettiva, una giusta dimensione anche quando fatti e persone sono stati trattati come miti.
Ma il mito, emendato dalla sacralità che sovente lo accompagna, conserva sempre un valore simbolico ed evocativo, una capacità narrativa che sta alla coscienza dei posteri saper leggere, avendo presente che, a dimensione di leggenda, assurgono eventi e persone che hanno comunque saputo esercitare uno straordinario potere di attrazione sulla fantasia e sul sentimento di un popolo e di un’epoca.
Questo è stato il “Grande Torino”, questo hanno rappresentato quegli uomini in maglia granata il cui mito risultò ancor più enfatizzato dalla tragedia che ne ha brutalmente segnato la fine. Ma la visione leggendaria che ancor oggi li accompagna, ha radici in quel tempo e ne riusciremo a comprendere il significato solo se la contestualizziamo in quel particolare periodo della nostra storia.
Con le macerie ancora fumanti dell’Italia post-bellica, quella squadra ha rappresentato il riscatto di una nazione ai propri occhi ed a quelli del mondo, il simbolo della rinascita di un popolo prostrato nel fisico e nell’anima, attraversato da mille sconfitte e che, con la riconquistata libertà, si rimetteva faticosamente in cammino alla disperata ricerca di se stesso e di un futuro migliore, tutto da costruire.
Valerio Bacigalupo era parte di quel sogno, e ciò sarebbe già ragione sufficiente per essere degnamente celebrato.
Ma per chi vive questi luoghi un po’ meno distrattamente, per chi frequenta il presente ed il passato della nostra comunità con occhi più meticolosi e diligenti, sa che Valerio, per Vado, è stato qualcosa di più senza rappresentare un mito, è stato qualcosa d’altro, proprio perché non è stato considerato “altro” rispetto alla sua gente: Valerio è stato l’immagine di Vado fuori dai suoi confini, l’emblema delle sue radici e di quel senso di appartenenza altrove sconosciuto.
Nell’immaginario collettivo, la nostra città è stata per decenni solo ciminiere e fumi, il grigio sobborgo sacrificato sugli altari dell’industrializzazione, il paese da attraversare velocemente e velocemente dimenticare perché in Riviera si viene per altro ed altro alla Riviera si chiede.
Ma se si esce fuori dall’ombra delle ciminiere, se si soffia via la coltre di fumi e polveri che la storia ci ha dispensato e ciascuno di noi regala a se stesso un po’ più dell’attimo fuggente – buono forse per cambiare la sorti di un singolo, ma inappropriato per comprendere luoghi e persone – si scoprirà che la ricchezza di questo posto davanti al mare risiede altrove, si capirà che la bellezza di questa città sta nell’aver avuto la forza di contrapporre all’estetica del paesaggio, l’etica della sua gente.
Perché la Vado che ha conosciuto nella sua breve vita Valerio, è quella mirabilmente riassunta dalle parole che Mario Muda, ex vice-direttore de “Il Secolo XIX”, ha utilizzato in altro contesto, peraltro anch’esso – guarda caso – di carattere sportivo (il libro dedicato ai cent’anni del Vado F.C.).
Eccole:
“Fabbriche aveva significato manodopera, tutta arrivata all’improvviso, spesso immigrati dal Sud dell’Italia, oppure profughi da altre miserie, contadini che preferivano la fabbrica all’aleatorietà della campagna. Una popolazione esplosa numericamente, affratellata dalla fame e dalle condizioni miserabili dei lavoratori all’inizio dell’industrializzazione, che nella solidarietà e nella comunione di ideali si ritrova unita per riscattare condizioni di vita al limite della sopravvivenza.
Fioriscono le Società di Mutuo Soccorso dove ci si ritrova per divertirsi, ma anche per gettare le basi di una società diversa. E tutto un rifarsi alla coralità, all’insieme; non è solo mutua assistenza, ma anche il rispetto per chi viene da lontano. Se oggi Vado ha una tolleranza e una disponibilità verso le minoranze, qualità esemplari e quasi uniche, se sempre, attraverso la propria storia, ha dato lezioni di etica e di forza aiutando le classi più deboli e le minoranze, il laboratorio in cui germinano i semi di questo metabolismo altruista, generoso e solidale, si sviluppa in quegli anni.
Ci sarà un periodo in cui, nel secondo dopoguerra, per sostenere gli operai dell’Ape, per oltre due anni la gente di Vado si tasserà per dare da mangiare agli uomini in sciopero e alle loro famiglie. Nella grande mensa della fabbrica, i vadesi portavano il loro contributo per sfamare chi lottava per difendere il proprio lavoro. Sono cose che non si improvvisano, arrivano da lontano”.
Se questa era la Vado di quel tempo, desta forse stupore – fra l’altro – il fatto che, in un’epoca in cui anche lo sport fotografava l’anima identitaria e solidale di una comunità, una piccola squadra di operai, cementata dallo stesso spirito, abbia saputo mettere in bacheca la prima Coppa Italia?
Sinceramente non so se questo rovistare nei cassetti della memoria, se questo viaggio tra sentimento e ragione avrà la capacità di smuovere o di radicare ancor più ciascuno nei propri convincimenti. Spero quantomeno che abbia offerto elementi per comprendere e giudicare, perché, mutuando il titolo di una celebre opera di Francisco Goya, “il sonno della ragione genera mostri”.
A noi sarebbe sufficiente che una ragione, anche solo un po’ meno che dormiente, facesse comprendere che ghettizzare le persone in funzione della loro professione (o di altro), forse non genera mostri, ma pregiudizi sì, ma soprattutto impedisce di far intendere che aldilà di un calciatore, c’è un uomo, con la propria storia e – alcune volte, come nel nostro caso – c’è la storia della sua gente e di un comune sentire, così lontano dagli egoismi dei giorni nostri.
E nelle paludi di una società esclusiva, dentro i muri mentali eretti dalle contemporanee paure, un po’ di quello spirito solidale forse ci sarebbe estremamente utile, consapevoli e radicati nell’idea che – per usare un celebre aforisma a me particolarmente caro – “gli uomini sono angeli con un’ala sola, possono volare solo abbracciati”.
Settant’anni fa due ali non sono bastate a salvar vite: oggi, con ciò che andiamo ad inaugurare, vorremmo donare a Valerio e a tutti gli uomini di Superga – per non dire a noi stessi – due ali nuove, per continuare a volare un po’ più in alto delle nostre attuali miserie e un po’ più su delle mediocrità di ogni tempo.
Se ci saremo riusciti, ne saremo sinceramente lieti. Altrimenti, che importa: in fondo, era solo un portiere.